giovedì 26 dicembre 2013

Il primo scritto, risalente a mezza vita fa, pensando a un'ombra lucente


Passavo ogni vespro ad osservare la lenta discesa del sole che calava sotto la linea dell’orizzonte. Intravedevo la sfera infuocata tra le folte chiome degli alberi, vedevo il cielo cadere lentamente in un baratro di tenebre, seguito da una spenta luce arancione, come gli ultimi battiti di coda di una creatura morente. Solo otto minuti bastavano per far scomparire quella debole fiamma, dopo che l’astro aveva compiuto il suo arco nella volta celeste.
In quei momenti ero sempre stato da solo, con i miei pensieri, con le mie paure, con i miei sogni e miei progetti futuri. Il tramonto per me aveva un significato quasi magico, era un momento mistico, in cui pensavo alle grandi domande che ci tormentano.
"Cos’è l’amore, cosa si prova quando si viene impadroniti di questo sentimento? Quando t’invade l’animo, quando non pensi ad altro che alla persona che si ama, ed è l’unica cosa che per te è importante?"
"Perché siamo in questo posto chiamato mondo? Perché ci hanno donato la vita?"
I minuti in quei momenti eterni, sembravano correre impazziti, ma ogni tramonto sembrava interminabile, perché io volevo che non finisse mai. Io volevo rendere eterni quegli attimi, ma se non ce l’ho fatta nella realtà, essi lo sono diventati solo nella mia inalterata memoria.
Quei giorni passavano lenti e uguali tra di loro, come se tutto fosse sempre stato così e che sarebbe durato in eterno, ma da una notte di molti anni fa non avrei mai passato alcun tramonto solo con me stesso. Quel giorno, sotto la luce che si spegneva e la luna che illuminava il sentiero, per la prima volta quel giorno, con quella atmosfera tratta da un sogno, alzai il volto in avanti e incrociai il tuo sguardo e il tuo sorriso. Nel lento e lungo cammino che separava noi due dalle nostre abitazioni, parlavamo di noi e io venni a conoscenza che io e te eravamo molto simili. Non c’importava quello che pensavano gli altri, non c’importava niente delle cose materiali, l’unica cosa che contava in quel momento era che eravamo insieme.
Da lì in poi, per lunghe decadi, al tramonto ci siamo sempre ritrovati, e abbiamo condiviso momenti che solo in un sogno avrebbero potuto essere più belli. Ad ogni vespro, ci sentivamo sempre più vicini, sempre più uniti.
Il tempo con te passava veloce.
Dopo il vespro la sera. Un sottile spicchio di luna illuminava il buio cielo che ci sovrastava, in cui nere nubi coprivano ogni cosa tranne quel astro e la sua flebile luce. Una leggera brezza accarezzava le tue delicate guance divenute rosse, forse per il freddo o per altro, e muoveva le foglie morte che lentamente cadevano a terra, aggiungendosi al fruscio che accompagnava il sordo lamento del vento. In quei momenti, quando io e te eravamo l’uno nelle braccia dell’altra, sentivo il tuo leggero respiro e il battito rapido dei nostri cuori, che in quei momenti sembravano intenti a riprodurre il suono di una mandria che correva impazzita. Ti tenevo stretta tra le mie braccia, nel desiderio comune di fermare la corsa del tempo, che quel attimo divenisse infinito. Sarei potuto morire in quel momento, e sarei stato comunque felice. Felice di sapere che in quel cielo così scuro, la tua scura chioma dai lucenti riflessi libera al vento, guidava ogni cosa e la illuminava di luce impropria, come la luna. Quel momento durò pochi secondi, o forse pochi minuti, ma ogni giorno, poco prima del tramonto, il mondo spariva tranne quel piccolo angolo verde sperduto nel paradiso terrestre che faceva da sfondo alle nostre sensazioni e rispecchiava i nostri sentimenti. Ogni giorno con il caldo d’Estate, nei colori dell’Autunno, tra luci delle stelle dell’Inverno, e l’odore dei fiori di Primavera, io e te ritornavamo alle origini, quando era mondo era appena nato, e nessuno vi abitava in quel paradiso.

giovedì 16 maggio 2013

Alla corte di un Piccolo Principe

Ave gente,
rieccomi a scrivere su queste piccolo angolo virtuale, dopo tanto tempo.
Chiedo scusa per la lunga assenza, ma in queste settimane il tempo è stato parecchio tiranno e in quel poco che me ne rimaneva per dedicarlo alla scrittura dovevo (e devo tuttora) dividerlo tra il sistemare definitivamente i testi di Diary of a Mind (raccolta di "poesie rock", come le ha definite il caro e buon Ciuffreda, che scrivo ormai da 10 anni) in LaTeX, fare lo stesso lavoro con quello per i concept (raccolte di poesie/testi per canzoni che raccontano una storia o sono legati da un unico filo conduttore), e poi finire dei post che ho in sospeso da molto tempo e che sto cercando di concludere, facendo le opportune ricerche per verificare la correttezza di certe affermazioni in essi contenute.

A proposito di concept, oltre a sistemarli sto lavorando alla progettazione di uno nuovo (alcuni di voi lo sapranno dato che gli è ne ho parlato di persona), e per realizzarlo nel migliore dei modi, devo anche leggere (in molti casi come questo si tratta di rileggere con piacere) certe favole tra cui Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Quello che segue sono i miei appunti e la mia personalissima analisi dell'opera, che non pretende di essere nulla di più che degli appunti su una visione personale, nient'altro, né una critica letterale (che detesto) né un'indagine delle intenzione dell'autore, ma solo un abbozzo di quello che io ci ho visto e che mi ha trasmesso: un modo per farvi entrare nel mio lavoro di scrittura, confrontare le idee con voi, sentire opinioni e magari trovare qualche ulteriore fonte d'ispirazione, quindi ogni tipo commento è assolutamente gradito.
E ora sia dia via all'analisi.










RIFLESSIONI SUL PICCOLO PRINCIPE DI ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY


Il deserto interiore

Questa favola per adulti rivolta ai bambini si svolge a mille miglia da ogni ambientazione umana perché è dimenticando i limiti mentali e sociali che simboleggiano la fretta, la frenesia, la corsa, si può riscoprire qualcosa di sé stessi; inoltre l'ambientazione è il deserto, perché agli occhi dell'adulto è arido e privo di ogni distrazione, oggetto o soggetto degno di attenzione, ed è una landa che non dà alcuna aspettativa di crescita o cambiamento, in quanto è una landa morta dove nulla può germogliare ma solo morire; il bambino, però, in questo vuoto ci vede le stelle, e nella sabbia una foglio su cui disegnare, qualcosa da plasmare. Il protagonista precipita con il suo aereo in questo deserto, come un Icaro che precipita dal cielo, quando si materializza in lui il senso del reale e perde la capacità di continuare a sognare, diventando arido dentro e rischiando di morire (di sete) perché senza bere dalla fonte dell'eterna giovinezza in noi, il nostro lato migliore, gli occhi del bambino che si meraviglia, che vive dell'immaginazione e della magia del mondo e dei gesti delle persone, quel bambino cade nel sonno eterno, facendo morire ciò che di positivo vi è nell'essere umano.


"Mi disegni una pecora?"
L'incontro con il piccolo principe riscuote uno stato di meraviglia che sembrava dimenticato. Quando un mistero è così sovraccarico, non si osa disobbedire pensa il protagonista, e un bambino che irradia per la naturale bellezza e sognate semplicità che nel cuore del deserto di chiede di disegnargli una pecora di certo non può lasciare qualcuno indifferente. All'inizio il protagonista si oppone al disegnare la pecora, dicendo che non ne era capace, anche perché i suoi studi erano incentrati sulla geografia e sulla storia, ma il piccolo principe sostiene che non importa e che dove vive lui tutto è molto piccolo, e quindi glielo richiede.
I primi disegni però non soddisfano il piccolo principe in quanto erano troppo vicini al vero, al reale, che mostrano quindi sempre un aspetto negativo (la malattia, il sesso, la vecchiaia) finché il protagonista non disegnò solo una scatola, dicendogli che dentro vi era la pecora: era questo che il principe cercava, perché l'immaginazione non ha limiti, e dentro quella scatola può esserci qualsiasi pecora (di qualsiasi dimensione), e con il pensiero potrà fare qualsiasi cosa, senza essere incatenata ad una particolare azione, e quindi potendo fare qualsiasi cosa si riesca a immaginare, e come se fosse viva.


La curiosità del principe

Il piccolo principe ignora le domande del protagonista mentre non fà altro che chiedere incuriosito informazioni sul mondo e sugli oggetti che lo circondano (come l'aeroplano). È l'analogo del classico "perché?'' bambinesco,che non si accontenta mai di ciò che conosce, ma vuole comprendere e scoprire meglio il mondo, ponendosi in continuazione domande su domande sperando di ottenere delle risposte (in questo, bambini filosofi e scienziati non solo molto diversi).


Il viaggio su mondi diversi
L'asteroide B612 è l'asteroide da dove viene il piccolo principe: è poco più grande di una casa e solo una volta è stato visto da uno scienziato, anche se all'inizio non gli credevano dato com'era vestito, solo perché non sembrava serio  in quanto non indossava un abito convenzionale adatto all'occasione, dimostrando così quanto sciocchi sono gli adulti dato che si basano sull'aspetto e su ciò che i loro occhi vedono,; ed è per questo il mondo degli adulti è cieco: perché non riesce a cogliere l'essenziale in quanto è accecato dalla semplice apparenza.
Il piccolo principe visita i mondi della vita adulta non trovandoci alcun senso perché non portano a niente, perché privi di essenza o reale utilità, tranne uno: un lavoro fatto per altri, che nel tempo è diventato insostenibile. Questa serie di episodi convince il piccolo principe dell'assurda illogicità degli adulti, così che si ha un rovesciamento della comune credenza: l'unico modo logico per vivere il mondo è tramite l'irrazionale innocenza di un bambino che si meraviglia del mondo.
Il biondo principe quindi, come viene spesso sottolineato, non vede alcun senso profondo nel mondo adulto, come un ragazzo volante che veniva anch'esso dalle stelle, che viveva tra mondi (metaforicamente parlando) molto distanti tra loro, in una terra che non c'è: Il Piccolo Principe sembra quindi la versione di Saint-Exupery di Peter Pan di James Mattehw Barrie, infatti entrambi combattono il modo di ragionare del mondo adulto e, vedendone l'insensatezza, non vogliono crescere ma amano comunque apprendere e scoprire, come accade al Piccolo Principe parlando con la volpe, o come succede a Peter Pan interagendo Wendy.


Il saluto del principe
Per tornare a casa, il Piccolo Principe deve farsi avvelenare dal serpente; così lui sembrerà morto ma in realtà sarà ritornato dove ha le sue radici, dalla sua rose, tra le stelle che illuminano il cielo.
Per ritornare a dove appartiene deve apparire morto per il mondo e questo perché l'essenziale è invisibile agli occhi, e lui, rappresentando l'innocenza, il bambino in noi, deve essere custodito dentro di noi, ma morto agli occhi di un mondo che non può lasciarlo libero ne farlo ricongiungere con le sue origini. Questa è l'unica difesa che si possa utilizzare per proteggere il Piccolo Principe, che può così continuare a vivere dentro di noi, non dimenticandolo, risvegliandolo ogni volta che guardiamo le stelle, che aspettiamo di vedere una persona a cui teniamo, che sogniamo, che usciamo dagli schemi, che immaginiamo l'essenza che si nasconde dietro la logica banale e rassicurante dell'apparenza: ogni volta che un volo pindarico ci riconduce a ciò che eravamo, a ciò che ci caratterizza davvero e libera il subconscio irrazionale sottostante all'apparente compromesso razionale necessario per comunicare.


Un corteo di principi nascosti
Gli scienziati, come gli artisti, si abbandonano a questi voli e poi, elaborandoli, li trasportano nel linguaggio puramente razionale della matematica. Per questa ultima operazione, per quanto analoghe, tali figure sono agli antipodi: i primi usano il razionale per descrivere un volo di fantasia e di immaginazione, mentre per comprendere i secondi ci vuole semplicemente la capacità di sapersi orientare tra le infinite traiettorie (i significati del soggetto) e le mille planate (le tecniche utilizzate), entrambi aspetti sono parti integranti del volo stesso e simbolo della libertà e del piacere di volare. Queste due tipi di persone rappresentano due esempi diversi di come coltivare l'immaginazione, la meraviglia, l'innocenza (a volte brutale come nel Il Vecchio e il Bambino di Guccini) del bambino che cè in noi che, oltre a questo, vuole semplicemente vivere intensamente, spensieratamente, come se il domani non dovesse mai arrivare, pur sognandolo e progettando continuamente nuove avventure future. Questo ultima caratteristica del bambino in noi è rappresentato dalla figura Peter Pan che affronterò (spero presto) in un altro post.

Detto ciò non resta che congedarsi dalla corte di questo Piccolo Principe, per volare tra le stelle (dopo la seconda, svoltare a destra), consci che ormai lui puòvivere, e rivivere, dentro di noi.

sabato 16 marzo 2013

To Be A Rock And Not To Roll

Siamo solitudini: nasciamo soli, rimaniamo soli (dentro di noi) e moriamo soli. Siamo buchi neri affettivi in reciproca attrazione, assordati dal silenzio dell'assenza di affetto, di comprensione, di condivisione, dal senso di vuoto. Inoltre, più profondamente una persona si  trova a pensare a vivere ciò che lo circonda, più appare quasi impossibile  colmare quel vuoto e cancellare quella solitudine interiore, come ho già evidenziato nel post Giorraionn beirt bothar. Non sempre si può percorrere la strada insieme, come facevo presente in quelle righe, e anche se si è avuto la fortuna di trovare qualcuno con cui condividere tale strada, questo non si può ovviamente fare con tutte le persone che incontriamo nella nostra vita, e neanche solo quelle a cui teniamo davvero, quelle a cui vorremmo stare vicino e per il quale si è disposti a fare qualsiasi cosa pur di non vederle tristi, per farle sorridere, per placare quel senso di vuoto che pare incolmabile.
L'unico modo di essere vicino a qualcuno, di trasformare l'assordante silenzio in una melodia che, in accordo con l'altro diventi armonia, è quando si diventa un sostegno, un punto di riferimento, un pilastro della sua vita, una sicurezza incrollabile, sulla quale l'altro potrà sempre contare, perchè solo in questi momenti possiamo essere vicini a qualcuno, quando l'altro difese e noi ci sentiamo più liberi e sicuri; solo in questo modo che si crea un legame, un dialogo sincero.

In una canzone tratta dal loro album senza titolo (la celebre Stairway to Heaven) i celebri versi finali che chiudevano l'ultima strofa, riportano il concetto con la frase "To Be A Rock And Not To Roll", il quale può essere tradotto letteralmente come "essere una roccia e non rotolare" ma anche figurativamente, dove il termine rock può assumere il significato di un sostegno simile alle fondamenta di una casa, e quindi quella frase assumerebbe il significato "essere un sostegno e non crollare". Per me quel verso, e forse anche i tre precedenti, sono diventati una specie di promemoria, una massima, una linea guida da perseguire e tenere ben in mente, soprattutto quando si è di fronte a certi bivi o quando si ha la tentazione di cedere. "Essere un sostegno e non crollare", perché altrimenti si cede alla vertigine, all'ebbrezza di debolezza di cui parla Kundera ne L'insostenibile leggerezza dell'essere, perché così si cancella la solitudine; sì, essere di sostegno agli altri, dedicandosi agli altri, cancella la solitudine, perché riempie il vuoto che genera quella sensazione di solitudine, perché non ti fa sentire un'isola in mezzo in mezzo ad un oceano ignoto, perché ti dà un qualcosa da condividere, ti dà la forza per reagire e la resistenza per sopportare  cose che non pensavi di riuscire a reggere.

Essere un sostegno, un pilastro fondamentale, reggendo i problemi delle persone a cui si tiene, con tutto sé stesso: è questo l'unico modo per avvicinare in modo costruttivo quei due vuoti affettivi altrimenti destinati all'isolamento. E non cambia il tipo di legame che vi è, così come non importa la reciprocità di tale pensiero, perchè è generato semplicemente dall'affetto, e quindi amore, amicizia, o fratellanza non contano, conta solo il voler esser-ci e voler far parte di qualcosa, un condividere qualcosa che sia solo dei diretti interessati (esperienze comuni o altro che andranno far parte della loro storia e di come diventeranno, insomma, essere una parte importante della loro via).

In sostanza è questo secondo me l'unico modo per colmare la solitudine:
  1. essere una sostegno e non crollare
  2. esser-ci nella vita degli altri condividendo il più esperienze possibili con loro
    perchè il vero egoismo è l'altruismo.

Detto questo, vi saluto con quel capolavoro dei Led Zeppelin suonata dal vivo Madison Square Garden di New York City nel 1973.

Buona visione.

Rock On!





C'è una donna che è sicura
Sia tutto oro quel che brilla
E si compra una scala per il Cielo.
Sa che quando vi giungerà
Se i tutti negozi sono chiusi
Con una parola può ottenere ciò che vuole.
E si compra una scala per il Cielo.

C'è un segno sul muro
Ma lei vuole essere sicura
Perché come sai, a volte le parole hanno due significati.

Su di un albero accanto al fiume
C'è un canarino che canta,
A volte tutti i nostri pensieri sono fraintesi. 

E ciò mi meraviglia.

C'è una sensazione che provo
Quando guardo verso occidente
E la mia anima piange per la partenza.
Nei miei pensieri ho visto
Anelli di fumo fra gli alberi
E le voci di coloro che stavano a guardare.

E ciò mi meraviglia.

E si mormora che presto
Se noi tutti intoniamo la melodia
Il pifferaio ci condurrà alla ragione.
E arriverà un nuovo giorno
Per coloro che aspettano da tempo,
E le foreste echeggeranno di risate.

Se ci sono dei rumori nella tua siepe
Non allarmarti,
Sono solo i preparativi per la festa di Maggio.
Si, ci sono due vie che puoi percorrere,
Ma alla lunga
C'è sempre tempo per cambiare strada.

E ciò mi meraviglia.

Nella tua testa senti un brusio che non se ne andrà,
Nel caso tu non lo sappia
Il pifferaio sta chiamando per unirti a lui.
Donna, senti il vento soffiare
E lo sai che
La tua scala è costruita sul sussurro del vento?

E mentre scendevamo lungo la strada
Con le nostre ombre più alte delle nostre anime
Lì camminava una donna che noi tutti conosciamo
Che brilla di luce e vuol dimostrare
Come tutto in ultimo si tramuta in oro
E se ascolti molto bene
La melodia giungerà a te alla fine.
Quando uno è tutti e tutti sono uno
Essere pietra e non rotolare.

E si compra una scala per il Cielo.

domenica 3 marzo 2013

Giorraionn beirt bothar


Alla fine siamo tutti soli, con i nostri spettri del passato, i nostri scheletri nell’armadio, le nostre fobie adulte, e non abbiamo nessuno con cui parlarne che ci comprenda, perché ognuno è troppo immerso nell’abisso dell’egoismo e della propria sofferenza; e quindi cerchiamo conforto e non lo troviamo negli altri, nella famiglia, nella religione o in qualunque altra nostra credenza, ma ci riuniamo comunque per scambiarci vuote parole di solitudine simulando una felicità fittizia, una maschera sociale che allevia il dolore in apparenza (ma che è come un goldone per una sincera relazione interpersonale), ingannandoci di essere qualcuno che non siamo e mai saremo, perchè la follia dell'originalità di noi stessi saboterebbe ogni rapporto frutto di una comunicazione freddamente razionale.
Siamo tutti soli perchè solo nei soliloqui incoscienti siamo noi stessi, e solo in essi, ormai, siamo capaci di abbracciare la follia delle emozioni, nostre o esterne a noi; è per questo che vorrei nuotare in mare di follia, in un mondo pazzo che sia ancora capace di credere alla magia, all'empatia di due anime che comunicano a distanza, all'amore e alla felicità come aspirazione, e che rilega la ragione solo come mezzo per conoscere questo universo, e non come puro ed unico motore di una logica che ormai guarda solo il profitto, ma perde di vista l'autenticità dei pensieri e dei sentimenti; così lottiamo per sopravvivere in una società innaturale che reprime l'istinto naturale, e più cerchiamo di sopprimerlo più ci allontaniamo da noi stessi, e quella voce di sincerità che da sola esprime sé stessa ad un Io sordo, pian piano si affievolisce; così mi chiedo, se perfino noi stessi riusciamo a stento ad ascoltarci, come possiamo sperare che gli altri ci riescano? Come possiamo sperare di arricchire le nostre reciproche follie se ogni persona reprime la propria? Come potremmo trovare un modo di infrangere il muro della nostra alienazione, aprendoci al mondo, quando il mondo vuole solo schiacciarci? Come potremmo, noi, cancellare la distanza e far sì che i nostri soliloqui prendano forza e vigore, ed infine interagiscono per far diventare due monologhi un dialogo?
Solo trovando una risposta personalizzata a queste domande, superando questi problemi con una data persona, ci farà davvero percorre la strada insieme a lei, non come entità che viaggiano accanto, ma come individuazioni che, legate, viaggiano verso il giorno che verrà, l'alba di un domani ignoto, ma che insieme sarà più facile affrontare, e condividendo appunto con qualcuno di importante il tutto sarà più intenso e vitale di quanto ora possa apparire. È così che intendo il noto modo di dire celtico giorraionn beirt bothar (in due la strada è più breve), perchè si accelera il mutamento, si applica il Principio del vuoto di Joseph Newton, e ci si sostiene a vicenda quando tutto sembra crollare.
Esiste solo una persona al momento con cui ho provo davvero a fare la strada insieme, perché siamo solitudini affini che si attirano e si comprendono a vicenda, e per lei ci metto sempre tutto me stesso, anche se si tratta solo della mia confusione e quel poco di coerente che è la mia persona, per proseguire quel cammino. Per lei sono disposto a mettere in gioco ogni cosa, a rimettere in discussione ogni certezza perché, citando l'attimo fuggente, “è proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva”, ma soprattutto per non soffrire di quella sindrome degli angeli caduti citata da Jack Folla nel brano sottostante.

sabato 2 febbraio 2013

Perdendosi in un tipo di blu

Kind of Blue di Miles Davis è forse l'opera più rappresentativa e sincera di jazz modale che sia stata mai scritta. L'essenza di improvvisazione si manifesta in tutta la sua meraviglia: come riportato da Bill Evans, Miles Davis diede alla band solo delle bozze contenenti le linee melodiche sopra il quale bisognava ognuno doveva improvvisare, basandosi solo su brevi istruzioni per ogni pezzo da lui impartiti poco prima di registrare. O almeno, così la legenda vuole. Ma non è per questo, nè per l'incredibile formazione ed esecuzione (anche se Adderley, Cobb, Evans, Chambers, Coltrane e Davis, probabilmente, non hanno mai raggiunto vette così in tutta la loro carriera), e neanche per l'impatto o il ruolo che ha avuto nella storia di questo genere e della storia della musica moderna in generale.
Il motivo sta nel fatto che mi trasmette sensazioni sempre nuove, diverse, ma che si basano su quello strano senso di tranquillità capace di mettere ordine e dare una descrizione ad un caos interiore che, normalmente, cresce e genera ulteriore confusione, innestando un circolo vizioso. Quest'album per me è, quindi, come piccolo santuario nella quale rifugiarmi quando lo stress e la stanchezza mentale diventano quasi opprimenti, insostenibili. Penso però che senza vera condivisione, le cose vissute non possono essere colte o apprezzate fino in fondo; che non riescano a essere percepite con la giusta concretezza e intensità che altrimenti avrebbero.
Io personalmente non so come poter trasmettere ciò che questo album riesce a farmi provare e sentire, e neanche come descriverlo o condividerlo con altri, perché le parole non bastano, non servono, non hanno la giusta potenza espressiva o evocativa: sono prive di empatia. Perciò posso farlo solo tramite le immagini che mi evoca, cercando tramite queste, unite a questa musica che regola il silenzio delle pause, di suscitare quel senso di tranquillità ordinante su cui si basa ogni nuova sensazione che l'ascolto produce.
Quindi ora, caro lettore, prova a rilassati, e...





"Prova a immaginare, nei sogni,
luci di città in movimento ma cristallizzate nel tempo,
e far tua quella visione di una Manhattan quasi immobile nel suo fluire:
i lampioni che si fondono con gli anabbaglianti delle automobili
e diventano un tutt'uno con le illuminazioni dei palazzi;
cerca di percepire la malinconica magia che risiede in quell'immagine,
E interiorizzala.
Ora in contrapposizione a questo,
immagina i tuoi pensieri, le parole che li costituiscono
che si disperdano nell'immensa profondità della notte
illuminata da lucciole, e non importa che siano
naturali forme di vita, artificiali cianotici bagliori stradali
che rischiarano il buio di una provinciale, o le milionarie scintille astrali
che corteggiano una luna che gioca a nascondino con l'ombra di questa terra.
E ora con l'infinita notte dentro di te
e l'eco dei tuoi pensieri che si disperde
nel riflesso esteriore del tuo riflettere interiore
(il mondo che si nasconde al sole ma lo richiama),
accendi la musica,
"Un Genere di Blu" o di Malinconia,
e lascia sfumare la tua anima al suono di quella intimistica melodia,
lasciala viaggiare nella notte,
lasciala volare libera di sentire, di ascoltare e comprendere,
di percepire e provare, di sognare e divenire,
una scheggia lenta che attraversa lo spettro quieto delle emozioni
che prendono consistenza, perché il jazz è empatia e flussi di coscienza.
Accendi ora la musica e chiudi gli occhi:
che il viaggio inizi!"

domenica 27 gennaio 2013

Avviso ai naviganti

Ed eccomi qua, a scrivere dopo svariati e frenetici mesi di assenza. La mancanza di tempo e il lavoro su altri progetti non mi ha lasciato molti momenti liberi per dedicarmi al blog, ma ora con la tranquillità ritrovata anche grazie ad una musa entrata a far parte della mia vita, rieccomi qui, con una voglia di esprimermi e di condividere opinioni maggiore rispetto a quella che mi ha spinto ad aprire questo blog. Questa mia assenza non vuol comunque dire che sono rimasto fermo. Ho continuato a scrivere, e sono nate nuove idee; stralci di post sono stati elaborati sporadicamente, tra un impegno a l'altro, e l'unica cosa che mi ha impedito di pubblicarli è stata fin'ora la loro incompiutezza: sembrano non essere mai finiti, come se mancasse qualcosa, come se la conclusione del ragionamento fosse sospesa, o le parte fondanti di questo fossero sconnesse.

Originariamente avevo pensato questo blog come un luogo dove pubblicare certi pensieri, trasmettere un certo percepire, ma il discorso (elaborandolo in questi mesi) si è evoluto e ampliato, tanto che, se mai se ne vedrà la conclusione, potrebbe essere pubblicato come un saggio, qualcosa di analogo a "Lo scienziato come ribelle" di Freeman Dyson o "Il piacere di scoprire le cose" di Richard Feynman. Stralci brevi, autosufficienti, quando compiuti, probabilmente li troverete pubblicati in questo mio angolo disperso nelle rete. 

Ma non solo questo; perché grazie a un'altra inaspettata musa ho deciso di utilizzare tale blog come luogo in cui condividere i miei pensieri come un diario concettuale in cui potermi anche ritrovarmi quando la confusione (sempre presente) e la nostalgia morderanno nuovamente e più intensamente, o quando un blocco, dello scrittore o di un altro genere, si presenterà o quando un dubbio s'insinuerà, almeno in questa pagina, con i suoi post, tra queste parole, saprò ritrovarmi e scovare uno spunto, uno slancio per rimuovere la situazione di stallo.

Nei post che seguiranno, quindi, non troverete solo le solite considerazioni (spesso divulgative) del solito fisico noioso, ma anche (e forse soprattutto) tra i vari temi toccati, le mie passioni come la musica, la scrittura, la letteratura, film e telefilm (fose anche arte, un giorno) le mie domande e le mie riflessioni conseguenti a quello scrutamento interiore, degli altri, del mondo, e a volte della situazione attuale della società in cui siamo immersi, e quindi anche la politica e l'attualità.

Spero che questi stralci di pensieri e riflessioni possano risultare di qualche utilità a chi, tra voi, si prenderà la briga di leggere eseguire questo mio blog.