lunedì 29 febbraio 2016

Un Eco "Nel segno delle parole"

Facendo sei passeggiate nei boschi narrativi,
Tra storie di terre e luoghi leggendari,
Guidati dalla misteriosa fiamma di una regina di nome Loana
Che illumina di immagini la nebbia della memoria
Proveniente dall’isola del giorno prima,
Noi, apocalittici e integrati, in cerca di segni,
Tra le lapidi del cimitero di Praga,
In ricordo di Baudolino,
Osservando un pendolo che oscilla
E che ci ricorda che il tempo passa e il mondo gira,
Sentiamo tra gli ululati del vento, una voce
Nel mormorio di stelle & stellette della Via Lattea:
Qualcuno lassù ci chiama:
Un Eco nella parola scritta
Nei segni di una lingua che evolve
E che, nel suo modo di esprimersi
Con una struttura assente,
Riusciamo, in qualche modo,
A scorgere il tuo eco,
Che si rispecchia letteralmente
In ogni opera aperta
In cui noi lettori facciamo parte
E tramite essa possiamo arrivare a te, grande autore
E non essere più
Un semplice numero, zero,
Ma parte integrante di quella raffinata arte.


In cerca di una poetica che sia un riso
E non solo un’aristotelica tragedia,
In questo misto di ironia e forma incerta,
Perché in questo cordoglio
La forma non può contenere il messaggio
Che cerca di straripare dal linguaggio utilizzato
E dai segni in cui è dipinta,
Questo testo nelle rete viaggia
In forma di stato
Su un social-media
Da te tanto disprezzato.


Addio grande pensatore,
Grande filosofo,
Grande scrittore,
Uomo immerso nel nostro tempo,
Ti porgo il mio saluto
In forma di scrittura
Dalla periferia dell'impero,
Così che tu possa scorgere
Ogni convenzione che mente
Sulla mia intenzione,
E nei limiti dell'interpretazione,
Giungere a passo di gambero
Al messaggio di questo testo.


E ti chiedo scusa per questo pezzo
Degno forse di apparire nel compendio
Della storia della bruttezza,
E non nel mio diario minimo.
Forse mi sono fatto prendere troppo
Dalla vertigine della lista,
O dal semplice citazionismo;
Forse mi sono perso
Tra i labirinti della parola
E la parodia del verso,
Ma spero non ti porti
A ulteriori riflessioni sul dolore,
Ma attraverso la memoria vegetale,
Da te decantata e inseguita,
La bibliofilia e l'amore per la vita.

- Tratto da Diary of a Mind, testo n° 266 - Un Eco Nel segno delle parole, di Lorenzo Gandini (in arte Labhrás Kain)

sabato 6 febbraio 2016

La cassetta degli attrezzi dello scrittore 2 - Il primo livello: strumenti di espressione



Gli strumenti più comuni per uno scrittore sono essenzialmente quelli che permettono di comunicare in generale, non solo in forma scritta. Questi strumenti sono: la lingua, il vocabolario e la grammatica.


La lingua


Ogni lingua ha una capacità espressiva diversa e nel lettore evoca sensazioni diverse, e spesso è la scelta di quale tra le molte esistenti al mondo a rendere vincente un’opera.

Ad esempio, la raccolta I Fiori del Male di Baudelaire avrebbe tutto un altro impatto se non fosse scritta in francese, lingua che viene percepita generalmente come dolce, ed è la contrapposizione tra questa sensazione e il significato, spesso grottesco e claustrofobico delle strofe, a rende la sua poesia unica e affascinante.

Nelle lingue più comuni per la letteratura, si può contemplare l’inglese, la quale è una lingua molto ritmica, piena di verbi e soggetti monosillabici, capaci di rendere l’opera più orecchiabile e vicina alla tradizione orale, come dimostrano alcuni passaggi di Steinbeck in Furore; oppure il tedesco  che, con la sua capacità di mettere insieme termini per creare nuove parole dal significato esplicitato e l’insieme di suoni dolci e forti, può dare origine a grandi narrazioni ricche di fascino, forma e concetto come Le Affinità Elettive di Goethe; o ancora il russo, che già nell’alfabeto stesso mostra una maggior precisione e cura dei suoni, dando quindi allo scrittore stesso una maggior predisposizione per la cura dei dettagli e dell’espressività dei singoli personaggi… e l’elenco potrebbe continuare con tutte le lingue del mondo. Non per forza si deve però usare una lingua piuttosto che l’altra, ma anche più di questa in un’opera solo a seconda dell’uso e dei casi, anche se ovviamente questo diminuisce drasticamente la comprensione del testo.

Qualunque sia l’idea e le sensazioni che volete comunicare, conoscere i punti di forza di una lingua non è un modo per invitarvi a impararne una nuova o a esprimervi in una di cui non avete confidenza, ma nel sapere quali sono i punti deboli e quali quelli forti delle fondamenta del vostro modo di esprimervi, per poterli usare al meglio. Pensateci: le basi della grande letteratura italiana nascono dai dialetti, chiamati “volgari” (nel senso del popolo), ed era la lingua parlata da tutti; ciò che rende grandi opere come la Divina Commedia è l’aver tratto il massimo che potesse offrire la propria lingua madre.



Il vocabolario


Se sulla scelta della lingua da utilizzare quindi non ne abbiamo troppa, abbiamo però la quasi totale libertà su come usarla, modellarla e plasmarla come meglio ci conviene per mettere sul foglio (di carta o digitale) le nostre idee e/o la nostra storia.

Il più comune di questi strumenti è il vocabolario; non la sua vastità, il numero di parole che si conosce, i termini tecnici o quant’altro, ma l’insieme delle parole che si sanno usare e padroneggiare in modo consono per esprimersi in modo efficace. Ovviamente più è ampio più possibilità avete, ma le dimensioni di esso contano poco se non sapete usarlo a dovere: e non si sta parlando di correttezza nell’uso delle singole parole, ma del modo in cui esse comunicano, e questo perché, citando sempre King:

“La parola è solo una rappresentazione del significato; anche nel migliore dei casi, la scrittura resta quasi sempre un passo indietro rispetto al significato”.

- On Writing, Stephen King, pag. 112

Se questo non vi convince, pensate all’efficacia comunicativa dello slang e di come certe poesie lo utilizzino per rendere meglio ciò che stanno descrivendo. Un esempio lampante è la poesia Urlo di Allen Ginsberg, nella quale addirittura rende delle onomatopee, dei verbi, così da conferire al componimento la melodia e la visualizzabilità di cui ha bisogno.

Tenete anche a mente che ogni ricercatezza e ogni tecnicismo, se non necessario, mina la facilità di comprensione e l’immediatezza del testo, entrambe fondamentali per arrivare al cuore e alla mente di ogni possibile lettore.

Prima di passare oltre, vorrei chiudere con un consiglio dato dallo stesso Stephen King sempre tratto dalla stessa pagina della sua autobiografia di mestiere:

“usate sempre la prima parola che vi viene in mente, se è appropriata e colorita”,

che non è un invito ad usare un linguaggio scurrile, ma non perdersi nell’esattezza del termine da usare, perché quasi sicuramente, il primo che trovate comunicherà meglio quello che volete dire rispetto ad ogni artifizio trovato a posteriori (perché, per come la vedo io, ogni cosa post-, ha un che di posticcio o falso). Se non vi convince, allora non è appropriata, e allora riscrivete, ma sempre con la massima spontaneità del pensiero.



La grammatica


Che si può dire della grammatica? È quella che s’impara alle superiori e che, se non si è fatta propria, si può sempre imparare riprendendo in mano un qualsiasi manuale delle scuole medie che tratti di l’analisi logica, quella del periodo e la sintassi, e le varie forme verbali (perché si sentono troppi orrori in giro, soprattutto per quanto riguarda le forme passive, il congiuntivo e il condizionale).

So che può sembrare una cosa noiosissima, ma non è sufficiente conoscere e saper quando usare le parole del nostro vocabolario, perché la comunicazione si compone di tutte le varie parti del discorso (in futuro probabilmente ci farò un post su queste), ma si organizza a partire dalle regole della grammatica sul quale tutti conveniamo: in mancanza di queste regole, si può generare confusione e incomprensione.

Chiunque di voi potrebbe citarmi personaggi che si fanno capire benissimo infischiandosene della grammatica, come Yoda della saga di Star Wars, ma vi sono anche casi di scrittori che, volendola ignorare o plasmare a piacimento, si sono ritrovati in piena crisi su come impostare la frase. Vorrei citare uno degli episodi più noti di Joyce che, trovato riverso sullo scrittoio in atteggiamento di profonda disperazione, nel rispondere a quale fosse la causa, rispose che aveva scritto solo sette parole quel giorno (cosa già buona per lui), ma che non sapeva in che ordine andavano messe.

Questo per dire, con le parole di William Strunk: “Se non è certo di fare bene, [lo scrittore] farà meglio a seguire le regole”, perché “La grammatica non è solo una rogna; è anche il bastone al quale aggrapparvi per rimettere in piedi i vostri pensieri e farli camminare”[1].  

La moltitudine di regole può spaventare, e a leggere libri come quelli dei due autori citati (quello di Strunk, scritto insieme a White, è The Elements of Style) si trovano molti altri consigli e regole come evitare la forma passiva o eliminare ogni avverbio perché il loro uso dimostra la paura di non essere stati chiari, ma vi è sempre il salvagente della grammatica per ogni emergenza: la frase semplice soggetto-predicato, con al massimo il complemento oggetto. Questa costruzione può tirare fuori d’impiccio quando non si trova il modo di dare forma a un pensiero.



Considerazione sulla materia della scrittura


Concludo questo livello con un’analogia, se può esservi utile, di quanto trattato e una piccola considerazione.

Potete vedere le parole come gli atomi (o le molecole) che compongono gli elementi della tavola periodica che è il vostro vocabolario, mentre le regole della grammatica sono i legami che forgiano la materia[2] che risulterà essere il vostro paragrafo scritto (sul perché sia il paragrafo e non il periodo ci spenderò qualche parole quando tratterò il secondo livello). In tutto questo, voi sarete come dei fabbri che forgiano il paragrafo modellando una lega nota, o creandone una nuova, personale, usando magari la vostra intera cassetta degli attrezzi, e non solo il primo livello: perché tale cassetta, in fondo, è solo il bagaglio delle vostre conoscenze applicabili in modo utile e creativo al mestiere di scrivere (o di esprimersi e dialogare in generale); e se siete dei linguisti o esperti di semiotica, come Umberto Eco, perché non dovrete usare le vostre conoscenze per plasmare le parole e la grammatica stessa alle vostre necessità, così come chimici e fisici fanno con la materia composta da atomi e molecole?

Scrivere è comunicazione e, come ogni attività umana, è dunque difficilmente segregabile interamente in regole e discipline senza che vi siano eccezioni o modi per aggirare tali regole, e i libri dei vari Thoman Pynchon e James Joyce sono sempre qui a ricordarcelo.

Ora sta a voi decidere come usare al meglio tale primo livello in ogni momento, non solo per la scrittura, ma anche nel parlato; e se ancora avete dubbi, e volete a tutti i costi ampliare il vostro vocabolario o migliorare l’uso espressivo della grammatica, non vi resta che leggere: leggere molto, di qualsiasi cosa (narrativa e saggistica, prosa e poesia, piuttosto che articoli giornalistici) e in qualsiasi forma (e con questo intendo anche audiolibri, in caso), senza scuse, perché, se non avete tempo e/o non avete l’interesse di leggere cose su l’argomento o il settore di cui la vostra opera tratta, mi spiegate come perché mai volete scriverci su qualcosa?



[1] On Writing, Stephen King, pag. 116
[2] In questa analogia, i legami intramolecolari sarebbero come le regole applicate dall’analisi logica, mentre quelle applicate dall’analisi del periodo, cioè la sintassi, sarebbero i legami intermolecolari: gli apostrofi sono una via di mezzo tra le due cose, esattamente come il legame a ponte idrogeno (o legame H) che si avvicina al legame ionico.

domenica 17 gennaio 2016

La cassetta degli attrezzi dello scrittore 1 - Ideazione e struttura


L’idea alla base


Scrivere è un modo di esprimersi, di comunicare, e può anche essere uno modo di vivere le cose e un mestiere, ma in ogni caso, il testo che ne uscirà sarà comunque una costruzione nostra, in qualche modo artigianale. Per capire meglio quello che voglio esprimere forse è meglio considerare questo aspetto e quindi concepire l’atto dello scrivere come l’esecuzione di un mestiere.

Ogni mestiere per essere eseguito al meglio, richiede l’uso di alcuni strumenti, oltre che allo sviluppo di opportune capacità nell’uso di tali strumenti, e la scrittura non è da meno.

Molti pensano che l’unico strumento dello scrittore siano la penna e il foglio su cui scrivere, ma già molti film mostrano ben altro:

-       una macchina da scrivere, come capita per in Misery;
     -       un moderno computer, come in The Words;
     -       la ricerca dell’ispirazione, come per la camminata in Urlo;
     -       la necessità di assaporare le parole e linguaggio, come ne L’attimo fuggente;
      -       il bisogno di raccontare e di esprimere idee, opinioni e sensazioni;
     -      

In sostanza, poco conta il mezzo con cui si scrive: i veri utensili sono altri.

Stephen King nella sua Autobiografia di un mestiere dedica una parte del libro proprio a questi aspetti, ma prima di capire il perché siano necessari e quale utilità abbiano tali strumenti bisogna soffermarsi prima su una cosa: che cos’è scrivere. King parla di telepatia, certo, ma questo non aiuta a capire quali strumenti servono allo scrittore.

Io mi soffermerei proprio su quello che ho scritto all’inizio: scrivere è comunicare, non con la voce o con i gesti, ma con simboli grafici che rappresentano lettere, sillabe e parole. Con in mente questo, e il fatto che un utensile è utile ad affrontare una data situazione e ottenere un risultato specifico (come un cacciavite è utile per fissare qualcosa in un certo modo, diverso da quanto farebbe un martello), possiamo capire ciò che ci serve in a base anche alle difficoltà che si possono affrontare.

“Quello che voglio dire è che per scrivere al meglio delle proprie capacità, è opportuno costruire la propria cassetta degli attrezzi e poi sviluppare i muscoli necessari per portarla con sé. Allora, invece di farsi scoraggiare davanti un lavoro che si preannuncia complicato, può darsi che abbiate a disposizione l’utensile adatto con il quale mettervi immediatamente all’opera.”

- On Writing, Stephen King, pag. 108

L’esempio che lo stesso King fa in quel libro, è quello di una cassetta a più livelli smontabili simile a quella di suo zio Oren, e la struttura che utilizza è più o meno la stessa. Questa è la sua divisione partendo dal livello più in altro:

1.     Vocabolario e grammatica
     2.     Elementi di stile  (il paragrafo, la lunghezza del libro, etc.)
     3.     Strumenti utili
Concordo abbastanza con questa visione, ma a mio avviso i livelli dovrebbero essere strutturati a loro volta in parti, come le piccole scatolette delle vere cassette degli attrezzi. Inoltre, suddividerei il terzo livello in due: strumenti utili nella scrittura, come cero e proprio terzo livello, e strumenti utili per aggredire il più grande nemico della comunicazione, rappresentato dalla pagina bianca, come quarto livello, dove vi sono quelle tecniche chiamate "di rifocalizzazione" per superare il noto “blocco dello scrittore”.

Mi accingerò nel seguito a mostrare come strutturare e riempire la cassetta degli attrezzi, prendendo ispirazione sempre da Stephen King, ma illustrando il mio punto di vista su come suddividere e ordinare i vari livelli della cassetta: quale logica vi deve esserci per far sì che sia il più funzionale possibile, basandomi su come sto gestendo la mia,



Organizzazione generale


Gli utensili più comuni stanno nel vano superiore per essere sempre a portata di mano e di rapido usi, mentre negli altri livelli ci sono tutti gli attrezzi che si adattano alle varie situazioni e agli ostacoli da affrontare, e sono quelli che caratterizzano il modo di lavorare di uno scrittore rispetto agli altri; la propria “mano”, il proprio modo di comunicare, traspare anche e soprattutto da come si usano gli strumenti comuni, a è la varietà e l’efficacia di ciò che si mette negli altri livelli che farà la differenza (King docet).

Infine, prima di affrontare cosa mettere nel concreto in tale cassetta, è bene tenere presente una cosa fondamentale: sono tutti strumenti, e come tali è bene farne una manutenzione periodica, riesaminarli come se fosse la prima volta che li dovete adoperare, ridare loro di tanto in tanto un nuovo splendore e utilità a quelli arrugginiti, e rimuovendo col tempo e col cambiamento (e la crescente consapevolezza, si spera) quelli che sono diventati obsoleti[1].



[1] Vorrei sottolineare che “obsoleti” non significa ridondanti, perché per combattere la pagina bianca, la ridondanza può essere la nostra salvezza.

domenica 29 novembre 2015

Che cos'è un libro?

«Mi piacerebbe sapere», mormorò fra sé, «che diavolo c'è in un libro fintanto
che è chiuso. Naturalmente ci sono dentro soltanto le lettere stampate sulla carta, però qualche cosa ci deve pur essere dentro, perché nel momento in cui si comincia a sfogliarlo, subito c'è di colpo una storia tutta intera. Ci sono personaggi che io non conosco ancora e ci sono tutte le possibili avventure e gesta e battaglie, e qualche volta ci sono delle tempeste di mare oppure si arriva in paesi e città lontani. Tutte queste cose in qualche modo sono già nel libro. Per viverle bisogna leggerlo, questo è chiaro. Ma dentro ci sono fin da prima. Vorrei proprio sapere come.»
- La storia infinita, Michale Ende, pag. 19





E se tutto questo non ci fosse? Se le lettere e le immagini stampate fossero solo immagini, e quindi leggi e informazioni con cui l'energia che il lettore ci mette permetterebbe di creare tutto ciò con la fantasia? Sarebbe un po' come abbandonare il concetto i pre-esistenza come fece Fermi in fisica.

Ma allora che ruolo avrebbe lo scrittore? In questo caso, penso, a quello di scrivere quelle regole, quelle informazioni come fosse una nuova fisica e una chimica magica, che attragga il lettore e crei un'alchimia diversa da lettore a lettore; e lo scrivere una storia in modo coerente e chiaro è il modo per rendere più facile al lettore quell'azione, quel creare il mondo, dare vita ai personaggi unendo le due fantasie (quelle dell'autore e quelle del lettore). In questo modo, l'energia dei due che si legano, permettono alla storia e al mondo di crearsi e prendere vita, così come la massa crea le particelle che compaiono nel momento del decadimento del nucleo atomico: una sorta di analogia forse con il decadere delle idee nel mondo reale, anche se tale realtà rimane nella mente di chi legge e nella fantasia, che risulta essere più reale di quanto la si  immagini.

Il libro quindi, come contenitore di tutto ciò che vivrà nella mente del lettore per mezzo delle parole dello scrittore, è in sé, la parte cartacea del contratto viene stipulato da entrambi, in cui figurano le condizioni, le informazioni e leggi (narrative e non) che rendono possibile e accettabile la sospensione del credibile, ridefinendo ciò che questa parola vuol dire, permettendo quindi di generare una nuova realtà, nata dal compromesso e dall'unione di due menti, che tramite il libro stampato comunicano, al di là del tempo e del luogo in cui esse si trovano.

giovedì 26 dicembre 2013

Il primo scritto, risalente a mezza vita fa, pensando a un'ombra lucente


Passavo ogni vespro ad osservare la lenta discesa del sole che calava sotto la linea dell’orizzonte. Intravedevo la sfera infuocata tra le folte chiome degli alberi, vedevo il cielo cadere lentamente in un baratro di tenebre, seguito da una spenta luce arancione, come gli ultimi battiti di coda di una creatura morente. Solo otto minuti bastavano per far scomparire quella debole fiamma, dopo che l’astro aveva compiuto il suo arco nella volta celeste.
In quei momenti ero sempre stato da solo, con i miei pensieri, con le mie paure, con i miei sogni e miei progetti futuri. Il tramonto per me aveva un significato quasi magico, era un momento mistico, in cui pensavo alle grandi domande che ci tormentano.
"Cos’è l’amore, cosa si prova quando si viene impadroniti di questo sentimento? Quando t’invade l’animo, quando non pensi ad altro che alla persona che si ama, ed è l’unica cosa che per te è importante?"
"Perché siamo in questo posto chiamato mondo? Perché ci hanno donato la vita?"
I minuti in quei momenti eterni, sembravano correre impazziti, ma ogni tramonto sembrava interminabile, perché io volevo che non finisse mai. Io volevo rendere eterni quegli attimi, ma se non ce l’ho fatta nella realtà, essi lo sono diventati solo nella mia inalterata memoria.
Quei giorni passavano lenti e uguali tra di loro, come se tutto fosse sempre stato così e che sarebbe durato in eterno, ma da una notte di molti anni fa non avrei mai passato alcun tramonto solo con me stesso. Quel giorno, sotto la luce che si spegneva e la luna che illuminava il sentiero, per la prima volta quel giorno, con quella atmosfera tratta da un sogno, alzai il volto in avanti e incrociai il tuo sguardo e il tuo sorriso. Nel lento e lungo cammino che separava noi due dalle nostre abitazioni, parlavamo di noi e io venni a conoscenza che io e te eravamo molto simili. Non c’importava quello che pensavano gli altri, non c’importava niente delle cose materiali, l’unica cosa che contava in quel momento era che eravamo insieme.
Da lì in poi, per lunghe decadi, al tramonto ci siamo sempre ritrovati, e abbiamo condiviso momenti che solo in un sogno avrebbero potuto essere più belli. Ad ogni vespro, ci sentivamo sempre più vicini, sempre più uniti.
Il tempo con te passava veloce.
Dopo il vespro la sera. Un sottile spicchio di luna illuminava il buio cielo che ci sovrastava, in cui nere nubi coprivano ogni cosa tranne quel astro e la sua flebile luce. Una leggera brezza accarezzava le tue delicate guance divenute rosse, forse per il freddo o per altro, e muoveva le foglie morte che lentamente cadevano a terra, aggiungendosi al fruscio che accompagnava il sordo lamento del vento. In quei momenti, quando io e te eravamo l’uno nelle braccia dell’altra, sentivo il tuo leggero respiro e il battito rapido dei nostri cuori, che in quei momenti sembravano intenti a riprodurre il suono di una mandria che correva impazzita. Ti tenevo stretta tra le mie braccia, nel desiderio comune di fermare la corsa del tempo, che quel attimo divenisse infinito. Sarei potuto morire in quel momento, e sarei stato comunque felice. Felice di sapere che in quel cielo così scuro, la tua scura chioma dai lucenti riflessi libera al vento, guidava ogni cosa e la illuminava di luce impropria, come la luna. Quel momento durò pochi secondi, o forse pochi minuti, ma ogni giorno, poco prima del tramonto, il mondo spariva tranne quel piccolo angolo verde sperduto nel paradiso terrestre che faceva da sfondo alle nostre sensazioni e rispecchiava i nostri sentimenti. Ogni giorno con il caldo d’Estate, nei colori dell’Autunno, tra luci delle stelle dell’Inverno, e l’odore dei fiori di Primavera, io e te ritornavamo alle origini, quando era mondo era appena nato, e nessuno vi abitava in quel paradiso.

giovedì 16 maggio 2013

Alla corte di un Piccolo Principe

Ave gente,
rieccomi a scrivere su queste piccolo angolo virtuale, dopo tanto tempo.
Chiedo scusa per la lunga assenza, ma in queste settimane il tempo è stato parecchio tiranno e in quel poco che me ne rimaneva per dedicarlo alla scrittura dovevo (e devo tuttora) dividerlo tra il sistemare definitivamente i testi di Diary of a Mind (raccolta di "poesie rock", come le ha definite il caro e buon Ciuffreda, che scrivo ormai da 10 anni) in LaTeX, fare lo stesso lavoro con quello per i concept (raccolte di poesie/testi per canzoni che raccontano una storia o sono legati da un unico filo conduttore), e poi finire dei post che ho in sospeso da molto tempo e che sto cercando di concludere, facendo le opportune ricerche per verificare la correttezza di certe affermazioni in essi contenute.

A proposito di concept, oltre a sistemarli sto lavorando alla progettazione di uno nuovo (alcuni di voi lo sapranno dato che gli è ne ho parlato di persona), e per realizzarlo nel migliore dei modi, devo anche leggere (in molti casi come questo si tratta di rileggere con piacere) certe favole tra cui Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Quello che segue sono i miei appunti e la mia personalissima analisi dell'opera, che non pretende di essere nulla di più che degli appunti su una visione personale, nient'altro, né una critica letterale (che detesto) né un'indagine delle intenzione dell'autore, ma solo un abbozzo di quello che io ci ho visto e che mi ha trasmesso: un modo per farvi entrare nel mio lavoro di scrittura, confrontare le idee con voi, sentire opinioni e magari trovare qualche ulteriore fonte d'ispirazione, quindi ogni tipo commento è assolutamente gradito.
E ora sia dia via all'analisi.










RIFLESSIONI SUL PICCOLO PRINCIPE DI ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY


Il deserto interiore

Questa favola per adulti rivolta ai bambini si svolge a mille miglia da ogni ambientazione umana perché è dimenticando i limiti mentali e sociali che simboleggiano la fretta, la frenesia, la corsa, si può riscoprire qualcosa di sé stessi; inoltre l'ambientazione è il deserto, perché agli occhi dell'adulto è arido e privo di ogni distrazione, oggetto o soggetto degno di attenzione, ed è una landa che non dà alcuna aspettativa di crescita o cambiamento, in quanto è una landa morta dove nulla può germogliare ma solo morire; il bambino, però, in questo vuoto ci vede le stelle, e nella sabbia una foglio su cui disegnare, qualcosa da plasmare. Il protagonista precipita con il suo aereo in questo deserto, come un Icaro che precipita dal cielo, quando si materializza in lui il senso del reale e perde la capacità di continuare a sognare, diventando arido dentro e rischiando di morire (di sete) perché senza bere dalla fonte dell'eterna giovinezza in noi, il nostro lato migliore, gli occhi del bambino che si meraviglia, che vive dell'immaginazione e della magia del mondo e dei gesti delle persone, quel bambino cade nel sonno eterno, facendo morire ciò che di positivo vi è nell'essere umano.


"Mi disegni una pecora?"
L'incontro con il piccolo principe riscuote uno stato di meraviglia che sembrava dimenticato. Quando un mistero è così sovraccarico, non si osa disobbedire pensa il protagonista, e un bambino che irradia per la naturale bellezza e sognate semplicità che nel cuore del deserto di chiede di disegnargli una pecora di certo non può lasciare qualcuno indifferente. All'inizio il protagonista si oppone al disegnare la pecora, dicendo che non ne era capace, anche perché i suoi studi erano incentrati sulla geografia e sulla storia, ma il piccolo principe sostiene che non importa e che dove vive lui tutto è molto piccolo, e quindi glielo richiede.
I primi disegni però non soddisfano il piccolo principe in quanto erano troppo vicini al vero, al reale, che mostrano quindi sempre un aspetto negativo (la malattia, il sesso, la vecchiaia) finché il protagonista non disegnò solo una scatola, dicendogli che dentro vi era la pecora: era questo che il principe cercava, perché l'immaginazione non ha limiti, e dentro quella scatola può esserci qualsiasi pecora (di qualsiasi dimensione), e con il pensiero potrà fare qualsiasi cosa, senza essere incatenata ad una particolare azione, e quindi potendo fare qualsiasi cosa si riesca a immaginare, e come se fosse viva.


La curiosità del principe

Il piccolo principe ignora le domande del protagonista mentre non fà altro che chiedere incuriosito informazioni sul mondo e sugli oggetti che lo circondano (come l'aeroplano). È l'analogo del classico "perché?'' bambinesco,che non si accontenta mai di ciò che conosce, ma vuole comprendere e scoprire meglio il mondo, ponendosi in continuazione domande su domande sperando di ottenere delle risposte (in questo, bambini filosofi e scienziati non solo molto diversi).


Il viaggio su mondi diversi
L'asteroide B612 è l'asteroide da dove viene il piccolo principe: è poco più grande di una casa e solo una volta è stato visto da uno scienziato, anche se all'inizio non gli credevano dato com'era vestito, solo perché non sembrava serio  in quanto non indossava un abito convenzionale adatto all'occasione, dimostrando così quanto sciocchi sono gli adulti dato che si basano sull'aspetto e su ciò che i loro occhi vedono,; ed è per questo il mondo degli adulti è cieco: perché non riesce a cogliere l'essenziale in quanto è accecato dalla semplice apparenza.
Il piccolo principe visita i mondi della vita adulta non trovandoci alcun senso perché non portano a niente, perché privi di essenza o reale utilità, tranne uno: un lavoro fatto per altri, che nel tempo è diventato insostenibile. Questa serie di episodi convince il piccolo principe dell'assurda illogicità degli adulti, così che si ha un rovesciamento della comune credenza: l'unico modo logico per vivere il mondo è tramite l'irrazionale innocenza di un bambino che si meraviglia del mondo.
Il biondo principe quindi, come viene spesso sottolineato, non vede alcun senso profondo nel mondo adulto, come un ragazzo volante che veniva anch'esso dalle stelle, che viveva tra mondi (metaforicamente parlando) molto distanti tra loro, in una terra che non c'è: Il Piccolo Principe sembra quindi la versione di Saint-Exupery di Peter Pan di James Mattehw Barrie, infatti entrambi combattono il modo di ragionare del mondo adulto e, vedendone l'insensatezza, non vogliono crescere ma amano comunque apprendere e scoprire, come accade al Piccolo Principe parlando con la volpe, o come succede a Peter Pan interagendo Wendy.


Il saluto del principe
Per tornare a casa, il Piccolo Principe deve farsi avvelenare dal serpente; così lui sembrerà morto ma in realtà sarà ritornato dove ha le sue radici, dalla sua rose, tra le stelle che illuminano il cielo.
Per ritornare a dove appartiene deve apparire morto per il mondo e questo perché l'essenziale è invisibile agli occhi, e lui, rappresentando l'innocenza, il bambino in noi, deve essere custodito dentro di noi, ma morto agli occhi di un mondo che non può lasciarlo libero ne farlo ricongiungere con le sue origini. Questa è l'unica difesa che si possa utilizzare per proteggere il Piccolo Principe, che può così continuare a vivere dentro di noi, non dimenticandolo, risvegliandolo ogni volta che guardiamo le stelle, che aspettiamo di vedere una persona a cui teniamo, che sogniamo, che usciamo dagli schemi, che immaginiamo l'essenza che si nasconde dietro la logica banale e rassicurante dell'apparenza: ogni volta che un volo pindarico ci riconduce a ciò che eravamo, a ciò che ci caratterizza davvero e libera il subconscio irrazionale sottostante all'apparente compromesso razionale necessario per comunicare.


Un corteo di principi nascosti
Gli scienziati, come gli artisti, si abbandonano a questi voli e poi, elaborandoli, li trasportano nel linguaggio puramente razionale della matematica. Per questa ultima operazione, per quanto analoghe, tali figure sono agli antipodi: i primi usano il razionale per descrivere un volo di fantasia e di immaginazione, mentre per comprendere i secondi ci vuole semplicemente la capacità di sapersi orientare tra le infinite traiettorie (i significati del soggetto) e le mille planate (le tecniche utilizzate), entrambi aspetti sono parti integranti del volo stesso e simbolo della libertà e del piacere di volare. Queste due tipi di persone rappresentano due esempi diversi di come coltivare l'immaginazione, la meraviglia, l'innocenza (a volte brutale come nel Il Vecchio e il Bambino di Guccini) del bambino che cè in noi che, oltre a questo, vuole semplicemente vivere intensamente, spensieratamente, come se il domani non dovesse mai arrivare, pur sognandolo e progettando continuamente nuove avventure future. Questo ultima caratteristica del bambino in noi è rappresentato dalla figura Peter Pan che affronterò (spero presto) in un altro post.

Detto ciò non resta che congedarsi dalla corte di questo Piccolo Principe, per volare tra le stelle (dopo la seconda, svoltare a destra), consci che ormai lui puòvivere, e rivivere, dentro di noi.

sabato 16 marzo 2013

To Be A Rock And Not To Roll

Siamo solitudini: nasciamo soli, rimaniamo soli (dentro di noi) e moriamo soli. Siamo buchi neri affettivi in reciproca attrazione, assordati dal silenzio dell'assenza di affetto, di comprensione, di condivisione, dal senso di vuoto. Inoltre, più profondamente una persona si  trova a pensare a vivere ciò che lo circonda, più appare quasi impossibile  colmare quel vuoto e cancellare quella solitudine interiore, come ho già evidenziato nel post Giorraionn beirt bothar. Non sempre si può percorrere la strada insieme, come facevo presente in quelle righe, e anche se si è avuto la fortuna di trovare qualcuno con cui condividere tale strada, questo non si può ovviamente fare con tutte le persone che incontriamo nella nostra vita, e neanche solo quelle a cui teniamo davvero, quelle a cui vorremmo stare vicino e per il quale si è disposti a fare qualsiasi cosa pur di non vederle tristi, per farle sorridere, per placare quel senso di vuoto che pare incolmabile.
L'unico modo di essere vicino a qualcuno, di trasformare l'assordante silenzio in una melodia che, in accordo con l'altro diventi armonia, è quando si diventa un sostegno, un punto di riferimento, un pilastro della sua vita, una sicurezza incrollabile, sulla quale l'altro potrà sempre contare, perchè solo in questi momenti possiamo essere vicini a qualcuno, quando l'altro difese e noi ci sentiamo più liberi e sicuri; solo in questo modo che si crea un legame, un dialogo sincero.

In una canzone tratta dal loro album senza titolo (la celebre Stairway to Heaven) i celebri versi finali che chiudevano l'ultima strofa, riportano il concetto con la frase "To Be A Rock And Not To Roll", il quale può essere tradotto letteralmente come "essere una roccia e non rotolare" ma anche figurativamente, dove il termine rock può assumere il significato di un sostegno simile alle fondamenta di una casa, e quindi quella frase assumerebbe il significato "essere un sostegno e non crollare". Per me quel verso, e forse anche i tre precedenti, sono diventati una specie di promemoria, una massima, una linea guida da perseguire e tenere ben in mente, soprattutto quando si è di fronte a certi bivi o quando si ha la tentazione di cedere. "Essere un sostegno e non crollare", perché altrimenti si cede alla vertigine, all'ebbrezza di debolezza di cui parla Kundera ne L'insostenibile leggerezza dell'essere, perché così si cancella la solitudine; sì, essere di sostegno agli altri, dedicandosi agli altri, cancella la solitudine, perché riempie il vuoto che genera quella sensazione di solitudine, perché non ti fa sentire un'isola in mezzo in mezzo ad un oceano ignoto, perché ti dà un qualcosa da condividere, ti dà la forza per reagire e la resistenza per sopportare  cose che non pensavi di riuscire a reggere.

Essere un sostegno, un pilastro fondamentale, reggendo i problemi delle persone a cui si tiene, con tutto sé stesso: è questo l'unico modo per avvicinare in modo costruttivo quei due vuoti affettivi altrimenti destinati all'isolamento. E non cambia il tipo di legame che vi è, così come non importa la reciprocità di tale pensiero, perchè è generato semplicemente dall'affetto, e quindi amore, amicizia, o fratellanza non contano, conta solo il voler esser-ci e voler far parte di qualcosa, un condividere qualcosa che sia solo dei diretti interessati (esperienze comuni o altro che andranno far parte della loro storia e di come diventeranno, insomma, essere una parte importante della loro via).

In sostanza è questo secondo me l'unico modo per colmare la solitudine:
  1. essere una sostegno e non crollare
  2. esser-ci nella vita degli altri condividendo il più esperienze possibili con loro
    perchè il vero egoismo è l'altruismo.

Detto questo, vi saluto con quel capolavoro dei Led Zeppelin suonata dal vivo Madison Square Garden di New York City nel 1973.

Buona visione.

Rock On!





C'è una donna che è sicura
Sia tutto oro quel che brilla
E si compra una scala per il Cielo.
Sa che quando vi giungerà
Se i tutti negozi sono chiusi
Con una parola può ottenere ciò che vuole.
E si compra una scala per il Cielo.

C'è un segno sul muro
Ma lei vuole essere sicura
Perché come sai, a volte le parole hanno due significati.

Su di un albero accanto al fiume
C'è un canarino che canta,
A volte tutti i nostri pensieri sono fraintesi. 

E ciò mi meraviglia.

C'è una sensazione che provo
Quando guardo verso occidente
E la mia anima piange per la partenza.
Nei miei pensieri ho visto
Anelli di fumo fra gli alberi
E le voci di coloro che stavano a guardare.

E ciò mi meraviglia.

E si mormora che presto
Se noi tutti intoniamo la melodia
Il pifferaio ci condurrà alla ragione.
E arriverà un nuovo giorno
Per coloro che aspettano da tempo,
E le foreste echeggeranno di risate.

Se ci sono dei rumori nella tua siepe
Non allarmarti,
Sono solo i preparativi per la festa di Maggio.
Si, ci sono due vie che puoi percorrere,
Ma alla lunga
C'è sempre tempo per cambiare strada.

E ciò mi meraviglia.

Nella tua testa senti un brusio che non se ne andrà,
Nel caso tu non lo sappia
Il pifferaio sta chiamando per unirti a lui.
Donna, senti il vento soffiare
E lo sai che
La tua scala è costruita sul sussurro del vento?

E mentre scendevamo lungo la strada
Con le nostre ombre più alte delle nostre anime
Lì camminava una donna che noi tutti conosciamo
Che brilla di luce e vuol dimostrare
Come tutto in ultimo si tramuta in oro
E se ascolti molto bene
La melodia giungerà a te alla fine.
Quando uno è tutti e tutti sono uno
Essere pietra e non rotolare.

E si compra una scala per il Cielo.